Salario minimo: un’interpretazione sociologica del perché potrebbe non funzionare in Italia

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Articolo di Pio Di Leonardo, studente di Management per l’Impresa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Stando a quanto trapela da una bozza del Piano Nazionale di Riforma, il Governo starebbe valutando l’introduzione di un salario minimo legale nel nostro Paese, per ridurre lo sfruttamento dei lavoratori e la povertà, soprattutto nel Mezzogiorno. Ma l’Italia è pronta per un reddito minimo uguale per tutti? Secondo il sociologo americano Putnam non ancora, a causa della struttura sociale e di una cultura politica che rende difficile la cooperazione e la solidarietà, soprattutto al Sud.

Tra le linee guida del Piano Nazionale di Riforma (Pnr), anticipate dall’Ansa, spunta l’ipotesi che il Governo italiano starebbe puntando all’introduzione di un salario minimo legale nel nostro Paese. Il Pnr è un documento che l’Italia metterà a punto a settembre e che elenca una serie di obiettivi facenti parte del Recovery Plan da presentare alla Commissione Europea, basato su tre pilastri: modernizzazione del Paese, transizione ecologica e inclusione sociale e parità di genere. “Per rendere più dignitosa la condizione dei lavoratori con salari sotto la soglia di povertà – si legge nella bozza – il Governo proporrà una graduale introduzione di un salario minimo orario collegato alla contrattazione collettiva nazionale”. Questa iniziativa, si spiega, “mira all’introduzione di un salario minimo orario – già vigente in ventuno Paesi dell’Unione Europea – che valorizzi la contrattazione collettiva nazionale fissando una soglia minima di retribuzione oraria inderogabile”.

Sì, perché la maggior parte degli stati europei adotta un salario minimo legale mentre solo Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria, Cipro e, ovviamente, l’Italia non ne hanno uno imposto per legge ma delegano alla contrattazione tra le parti sociali tale decisione.

Fonte: eticaPA.it (Il grafico fa riferimento ad un periodo precedente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea)

Salario minimo legale e Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro

Con il salario minimo vengono infatti fissati, con il contributo della contrattazione collettiva nazionale, dei livelli minimi salariali. Nel nostro Paese non è presente, ma esistono i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, i quali contengono diverse clausole tra cui, appunto, quella relativa al salario che costituisce un minimo per i lavoratori appartenenti a tale categoria. Il CCNL è stipulato a livello nazionale tra le varie organizzazioni rappresentanti dei lavoratori, i sindacati, i datori di lavoro e i rappresentanti delle relative associazioni datoriali. Disciplina i rapporti individuali di lavoro e alcuni aspetti dei rapporti reciproci tra lavoratore e azienda. La finalità del CCNL è determinare il contenuto essenziale dei contratti individuali di lavoro in un certo settore, sia sotto l’aspetto economico, ad esempio per quanto riguarda i trattamenti di anzianità, che sotto quello normativo, come orari di lavoro, mansioni e qualifiche. È possibile interpretare il CCNL come un contratto a livello aziendale: si può garantire un salario solamente al di sopra del livello minimo, non al di sotto, e un’eventuale contrattazione integrativa può essere solo migliorativa. Tale Contratto ha valenza sia per gli iscritti ai sindacati che per i non iscritti e vale, quindi, per tutte le imprese e i lavoratori: non è stabilito ex lege ma contrattato tra le parti. In Italia, la contrattazione collettiva si svolge a diversi livelli, da quello interconfederale in cui partecipa lo Stato in funzione di mediatore nelle varie trattative tra le confederazioni dei lavoratori e quelle dei datori, a quelli di categoria, locali e aziendali. I contratti che hanno maggiore rilevanza sono quelli conclusi a livello di categoria.

L’introduzione di un salario minimo potrebbe però non avere effetti solamente positivi nell’Economia di un Paese o di un determinato territorio. Vediamo perché…

Se il Governo decidesse di imporre un salario minimo inferiore a quello di equilibrio, cioè il salario tale da eguagliare domanda e offerta di lavoro, non si produrrebbero rilevanti effetti economici nel Paese. Se invece decidesse di imporre un salario minimo maggiore di quello di equilibrio, si avrebbero diversi effetti, perché si genererebbe un eccesso di offerta di lavoro e, di conseguenza, disoccupazione involontaria.

Fonte: De Caleo, Brucchi, (2015), Manuale di Economia del Lavoro

Probabili effetti di un salario minimo legale in Italia

Ma tali conseguenze negative potrebbero avere effetti ancora più devastanti in Paese come l’Italia che presenta un grave divario economico tra le regioni del Nord e quelle del Mezzogiorno, caratterizzate molto spesso da carenze di infrastrutture, emigrazione giovanile e infiltrazioni della criminalità organizzata.

Assumendo un’identica popolazione tra le regioni dell’Italia Settentrionale e quelle dell’Italia Meridionale, e che tutti i cittadini presentino uno stesso salario di riserva, ovvero il salario che rende i lavoratori indifferenti tra lavorare ed essere disoccupati, e dunque una medesima curva di offerta di lavoro, vediamo che effetti potrebbe avere l’introduzione di un salario minimo nel nostro Paese.

Considerando le imprese settentrionali più produttive di quelle meridionali, secondo quanto emerge dal report dell’Istat del 2019 dedicato ai risultati economici delle imprese a livello territoriale dell’anno preso in esame, queste presenteranno dunque una più elevata domanda di lavoro, dovuta alla produzione di merci ad elevato valore aggiunto. Pertanto, è probabile che il salario minimo introdotto dal Governo sia minore del salario di equilibrio delle aziende del Nord Italia e, di conseguenza, non si avrebbero effetti negativi in ambito socioeconomico. Il salario nazionale sarebbe infatti troppo basso e se le imprese pagassero tale salario, si genererebbe un eccesso di domanda tale per cui non si troverebbero persone da assumere.

Nelle regioni del Mezzogiorno, al contrario, l’introduzione di un salario minimo avrebbe il serio rischio di creare disoccupazione involontaria perché tale soglia potrebbe essere troppo alta in riferimento al valore delle imprese meridionali. Applicando la soglia minima del salario si genererebbe, infatti, un eccesso di offerta di lavoro, ovvero di disoccupazione, perché tale soglia sarebbe troppo disallineata rispetto alla produttività delle imprese locali. Per sviare tali problematiche, i datori di lavoro potrebbero quindi ricorrere al cosiddetto “lavoro nero” o a contratti informali, vanificando quindi gli obiettivi primari del salario minimo nazionale, che si prefigge in primis di evitare lo sfruttamento dei lavoratori.[1]

Un’interpretazione sociologica: Robert Putnam

Il sociologo e politologo americano e Professore di Politica Pubblica presso l’Università di Harvard, Robert D. Putnam, ha cercato di trovare una spiegazione in merito alle disuguaglianze salariali tra Nord e Sud Italia che tanto rendono difficile l’adozione di un salario minimo nel nostro Paese. Putnam ritiene che lo sviluppo economico di un territorio sia frutto delle Istituzioni Formali, ovvero di regole scritte, leggi, burocrazia e certezza del Diritto: prosperano i Paesi in cui tali Istituzioni sono efficienti, come quelli anglosassoni, ad esempio. Lo sviluppo economico però, dipende anche da Istituzioni Informali, cioè regole la cui forza e il cui rispetto non dipendono dalle autorità superiori, ma dalla sanzione sociale. Nel mondo del business, infatti, è fondamentale potersi fidare dei propri partner in affari, in quanto i contratti non esauriscono tutti gli aspetti di un rapporto di lavoro. Fidarsi vuol dire aspettarsi che il nostro partner non ci raggiri perché, se ciò dovesse accadere, non sempre la Legge potrebbe intervenire. Ingannare, in alcuni contesti socioculturali, fa perdere la reputazione a chi compie tale gesto, mentre in altri non è soggetto a una forte condanna da parte dell’opinione pubblica. Putnam afferma dunque, nella sua indagine socio-politologica racchiusa nel volume “Making Democracy Work” e diffuso in Italia con il titolo “La tradizione civica nelle regioni italiane”, che lo sviluppo economico è maggiore in contesti in cui vi è maggiore fiducia tra gli operatori del settore.

Per comprendere, quindi, pienamente lo sviluppo economico di un territorio, bisogna comparare Paesi con stesse Istituzioni Formali e diverse Istituzioni Informali per capire quale tra queste due causi un maggiore sviluppo socioeconomico. Putnam individua nell’Italia Settentrionale e nell’Italia Meridionale il luogo ideale per analizzare tale teoria in quanto presentano lo stesso apparato amministrativo e giudiziario ma Istituzioni Informali molto diverse tra loro.

Putnam nota come, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel Nord Italia si è assistito alla nascita delle cooperative agricole, che hanno contribuito al forte sviluppo economico di quelle regioni in qui è molto forte la sanzione sociale. Si tratta, infatti, di un’area geografica in cui storicamente l’istituzione fondamentale è quella del Comune, nucleo primordiale di democrazia, in cui i cittadini si ritrovano per collaborare e confrontarsi. Nel Mezzogiorno, invece, c’è meno fiducia tra i vari individui perché è forte il timore di essere ingannati dal proprio partner in affari: tale cultura, che nasce dal fatto che il Sud Italia è stato da sempre una monarchia e per tale motivo i cittadini sono stati considerati dei sudditi, per il sociologo americano, è un importante freno alla cooperazione e all’iniziativa economica. Putnam stesso scrive: “Alcuni commentatori italiani hanno erroneamente ricavato che la mia argomentazione attribuisse il ritardo del Sud all’immoralità personale […]. Questa interpretazione è completamente sbagliata. Il Sud è in ritardo non perché i suoi cittadini siano stati malvagi, ma perché essi sono intrappolati in una struttura sociale e in una cultura politica che rende difficile la cooperazione e la solidarietà […]. Un’efficace riforma politica del Sud deve avere di mira, innanzitutto, la trasformazione della società, la sostituzione dei legami verticali di sfruttamento e dipendenza con quelli orizzontali di reciproco aiuto, collaborazione e fiducia”.

Secondo Putnam, quindi, le disuguaglianze salariali tra Nord e Sud Italia sono, in parte, da ricondurre a queste differenze tra Istituzioni Formali e Istituzioni Informali. Solo investendo sul capitale sociale, ovvero su un tessuto di regole, di impegno civile e di norme che regolano la convivenza e che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale, potremo garantirci uno sviluppo reale e duraturo in modo tale che l’adozione di un salario minimo nel nostro Paese possa effettivamente aumentare il benessere e la qualità della vita di tutti i lavoratori, riducendo così la povertà e le disuguaglianze sociali.


[1] [1] De Caleo P., Brucchi L. (2015), Manuale di Economia del Lavoro, Il Mulino, Milano.

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