Skill Mismatch: Quando laurea non significa occupazione

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Articolo scritto da: Edoardo Alberto Donolato, studente di Economia e Management presso  l’Università Bocconi. 

Dedicato al nonno, che mi ha lasciato il giorno in cui l’ho scritto. 

“The skills mismatch is much less obvious than the skills gap, because it creates the illusion of  employment and economic and social stability.”  

Così inizia un recente report di Boston Consulting Group (“Fixing the Global Skill Mismatch”). Si chiama Skill Mismatch, e rappresenta il disallineamento tra le competenze richieste dalle aziende  e quelle di cui sono in possesso i lavoratori. Attualmente colpisce 1,3 miliardi di persone al mondo,  riducendo del 6% la produttività del lavoro globale, ed è in costante aumento.  La conseguenza è una colossale “tassa occulta” da 5mila miliardi di dollari, pari quasi al doppio del  debito pubblico italiano. 

Sintomatologia di un fenomeno complesso: 

Partiamo dal principio, il lavoro è un mercato, e in quanto tale esso è soggetto alle logiche di  domanda e offerta dello stesso. In particolare i meccanismi che lo regolano sono basati sull’incontro  tra i posti di lavoro vacanti (domanda) e le persone in cerca di occupazione (offerta), che vengono  remunerate da un salario concordato con le imprese. I lavoratori, con le loro esperienze, conoscenze  e obiettivi, concorrono a formare il cosiddetto “capitale umano”. 

Lo “skill mismatch” rappresenta un’allocazione inefficiente del capitale umano dato da un problema  di asimmetria informativa: “i datori di lavoro non riescono a trovare personale con le competenze  necessarie per uno specifico settore o in un determinato luogo. Per questo finiscono con l’assumere  persone troppo o troppo poco qualificate: soluzioni inefficienti, appunto, che bloccano le persone e  le aziende nella cosiddetta “qualification trap” costringendo le aziende a spendere in formazione per  i sottoqualificati e in aumenti salariali per i sovraqualificati.1 

Come sappiamo, il mondo del lavoro cambia sempre più velocemente: solo tra due anni, secondo il  report, il 27% dei lavoratori sarà impiegato in mansioni che ancora non esistono. Le competenze sono sempre più liquide, mentre nascono nuove professioni che in breve tempo si  affermano e spariscono.  

Dal punto di vista del lavoratore quindi, questa situazione causa incertezza sulle prospettive  economiche e di carriera, inoltre concorre a creare problemi anche più grandi, come l’aumento delle  disparità tra le economie globali e soprattutto la perdita di produttività. 

1 Report BCG “Fixing the Global Skill Mismatch

Fonte: BCG 

Come si evince dal grafico, i Paesi dove lo skill mismatch è più diffuso sono anche quelli con la minore  produttività del lavoro: un problema che riguarda soprattutto le economie emergenti, meno  evidente nei Paesi del Nord Europa, mentre l’Italia si pone a metà classifica. Se però ci focalizziamo sull’Unione Europea, ecco che cominciano i veri problemi per l’Italia, dove i  tentativi del sistema educativo di eliminare o ridurre il fenomeno si stanno rivelando inefficaci,  mentre i tempi necessari per la formazione si stanno allungando e i costi sono sempre più elevati. 

Le difficoltà italiane e la trappola del breve periodo: 

Lo Skill Mismatch non rappresenta solo una piaga a livello globale, ma è considerata una delle  maledizioni italiane degli ultimi anni, soprattutto per i giovani.  

Dal recente studio “New Skills at Work” condotto da JPMorgan in collaborazione con l’Università  Bocconi, il nostro Paese risulta il terzo al mondo con il più alto disallineamento tra le discipline di  studio scelte dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro.  

Nonostante l’Italia abbia anche la più bassa percentuale di laureati in Europa: la scarsità (che  dovrebbe stimolare la domanda di lavoro) non si traduce attualmente in un vantaggio. Inoltre i tassi di disoccupazione dei laureati italiani sono molto più alti di quelli di Paesi dalla  struttura economica simile. 

Alla base di questa situazione c’è anche un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e  retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali per le  diverse discipline, sostiene Massimo Anelli, economista dell’Università Bocconi e autore di un policy  brief al riguardo dove viene esaminato il caso della Germania.  

Anch’essa registra una percentuale di laureati più bassa della media europea, ma la composizione  per disciplina differisce nettamente da quella italiana. La Germania laurea molti più giovani in informatica, ingegneria ed economia e management, mentre l’Italia doppia la Germania per laureati  in scienze sociali e in discipline artistiche e umanistiche.

Anelli inoltre ha calcolato il ritorno economico della scelta universitaria (depurandolo dalle capacità  degli studenti e dalla loro condizione socio-economica) e ha trovato che le lauree che rendono di  più (tra il 70 e il 100% più di una laurea umanistica) sono, nell’ordine, economia e management,  giurisprudenza, medicina e ingegneria. 

Il problema però non riguarda soltanto la “sottoqualifica” di alcuni laureati, ma anche la  “sovraqualifica”, soprattutto dei laureati STEM, i quali non riescono ad integrarsi con la realtà  produttiva italiana, formata soprattutto da imprese di piccole dimensioni e a basso potenziale  innovativo. 

Ulteriori indagini rilevano come anche nella scelta delle scuole superiori le famiglie siano troppo  focalizzate su aspetti di breve termine come il gradimento dello studente, l’impegno necessario, la  qualità percepita dell’istituto e troppo poco sugli aspetti di lungo periodo, come le prospettive in  termini di mercato del lavoro o accesso all’università 

Lauree “meno utili” e approccio negazionista: 

Almalaurea, il consorzio di Atenei italiani che studia e favorisce l’incontro fra domanda e offerta di  lavoro per i neolaureati, ogni anno diffonde un rapporto che rileva le percentuali occupazionali e le  facoltà richieste in misura minore nel mercato del lavoro. Le più colpite in negativo sono le Scienze  Umanistiche che producono persone con una vasta preparazione ma a quanto pare, inadatte a  ricoprire un ruolo significativo nel complesso mondo del lavoro. Tra filosofi e laureati in lettere solo  il 15% riesce a trovare un impiego. Al primo posto però sorprende la presenza di Giurisprudenza,  uno dei percorsi universitari in passato più gettonati. In classifica anche Psicologia, Scienze Sociali e  Lingue. 

Fonte: Almalaurea 

Se da un lato i dati sono chiari, dall’altro non è giusto esigere che la scelta universitaria venga fatta  unicamente in base ai dati occupazionali e alla carriera. Ciò che è importante è la consapevolezza  delle caratteristiche del percorso scelto e della flessibilità del mercato del lavoro del proprio Paese.  Negli Stati Uniti ad esempio, la differenza occupazionale tra laureati in ambito umanistico e 

scientifico non sembra essere così marcata2, a causa di una maggiore flessibilità del mercato del  lavoro, di una migliore situazione economica e di una migliore integrazione tra Scienze Umanistiche,  innovazione e tecnologia. 

Tutto ciò è replicabile a patto di non adottare un approccio “negazionista” verso i dati, che devono  ricoprire un ruolo fondamentale nella formazione delle aspettative lavorative e di carriera,  soprattutto per i giovani. Per i giuristi in ascolto quindi si potrebbe dire che in questo caso il possesso  (la laurea) non vale il titolo (occupazionale). 

Fonti: 

• https://www.ilsole24ore.com 

• Report BCG “Fixing the Global Skill Mismatch” 

• https://www.almalaurea.it 

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