Ritorno alla lira? No, grazie

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Il dibattito tra i sostenitori e i detrattori dell’Euro è un evergreen che l’Italia ha nel sangue e vive da anni. Il richiamo al passato è un sentimento che pervade l’essere umano, ma quando si parla di sovranità monetaria bisogna fare attenzione a non fare salti nel vuoto.

Dopo il referendum Brexit di giugno 2016 che ha portato la Gran Bretagna ad abbandonare l’Unione Europea lo scorso 31 gennaio, negli ultimi giorni nel nostro Paese si è tornato a parlare di Italexit. Stavolta, la causa occasionale è stata la dichiarazione di Ursula von der Leyen sulll’adozione di Eurobond come strumento economico per fronteggiare la crisi causata dal Covid-19. La domanda dunque sorge spontanea: il ritorno alla lira sarebbe davvero una salvezza per l’Italia e per il nostro debito pubblico oppure ci avvieremmo verso un salto nel vuoto? Vediamo come e perché gli svantaggi legati a questo scenario supererebbero i (quasi nulli) vantaggi.

A cosa rinuncerebbe l’Italia se decidesse di tornare alla moneta unica?

Innanzitutto, affermare e sbandierare una Italexit implicherebbe ignorare totalmente gli aiuti che l’UE, ma soprattutto la BCE, hanno messo e metteranno in campo nelle prossime settimane, come ricordato da  Cesare Manzaro in questo articolo. Impossibile non considerare inoltre tutti i vantaggi che un’unione monetaria comporta: eliminazione della fluttuazione dei tassi di cambio, minore incertezza sui differenziali dei tassi d’interesse tra i Paesi membri, ridotti costi di transazione, trasparenza dei prezzi, coordinamento di una politica monetaria ma soprattutto benefici commerciali nei rapporti con gli altri Paesi. Tutti questi fattori sono vitali per la stabilità e la credibilità dell’Italia.

Ritorno alla lira: cosa accadrebbe al nostro debito pubblico?

Circa il 30% del nostro debito pubblico appartiene a investitori esteri: se si decidesse di abbandonare la moneta unica, tornando così alla lira, tale debito andrebbe ripagato con una moneta fortemente svalutata e di conseguenza gli investitori esteri venderebbero automaticamente i nostri titoli ad un prezzo stracciato, portando al collasso tutto il nostro sistema bancario; questo implicherebbe anche lo stop automatico dei prestiti concessi dalle banche e tutto quello che ne segue. I danni di un sistema bancario in ginocchio sono stati sotto gli occhi di tutti nel biennio 08/09, quando scaturirono, partendo dagli Stati Uniti, una recessione globale estesasi poi in Europa con la crisi del debito greco e in generale dell’euro.

Un’economia basata su una moneta deprezzata sarebbe un danno sotto tutti i punti di vista?

Un argomento portato avanti con verve da parte dei sostenitori della sovranità monetaria è il poter deprezzare la moneta aumentando così l’export e migliorando il saldo della bilancia commerciale, diminuendo cosi il disavanzo. Questo poteva essere vero quando un paese aveva al suo interno tutta la produzione di un prodotto: oggi, in un mondo cosi globalizzato nel quale pezzi dello stesso prodotto sono assemblati in diverse nazioni, il fatto di avere una moneta deprezzata favorirebbe l’esportazione di ciò che si produce nei confini nazionali ma si pagherebbe un costo altissimo sulle importazioni, andando ad incidere in modo pesantemente negativo sul nostro disavanzo commerciale.  Anche in questo caso, quindi, gli svantaggi superano di gran lunga i vantaggi.

Come dovrebbe essere gestito invece al tasso di cambio?

Una delle grandi decisioni quando si possiede la sovranità monetaria riguarda il cambio che la moneta deve assumere. È meglio avere un cambio fisso, ancorando così l’ipotetica nuova lira all’euro o al dollaro, oppure un cambio flessibile, lasciandolo cosi fluttuare nel tempo? La risposta è: dipende.

L’adozione di un cambio fisso priva il paese che lo adotta di uno strumento importantissimo: la politica monetaria. In un sistema di cambi fissi, il tasso d’interesse interno deve essere uguale al tasso d’interesse estero del paese al quale si decide di ancorarsi: questo viene fatto per far si che gli investitori evitino di speculare sui titoli di stato, facendogli richiedere lo stesso tasso d’interesse. Privarsi della propria politica monetaria è però rischioso: il non poter modificare i propri tassi d’interesse implica per esempio il non poter correggere l’aumento dell’inflazione causata da una produzione superiore al suo livello naturale e il non poter aggiustare gli squilibri commerciali del proprio paese. È d’esempio il caso dell’Argentina, che nel 1991 adottò il cosiddetto “currency board”: il paese sudamericano, in grosse difficoltà a causa di una produzione negativa e dell’inflazione che correva al 30%, decise infatti di agganciare la propria moneta al dollaro col valore simbolico di 1 a 1. Inizialmente questo processo portò giovamento all’Argentina e l’inflazione scese al 4%; la situazione cominciò però a peggiorare quando il dollaro nel 1999 vide un apprezzamento consistente e poiché il peso argentino era ancorato al dollaro, anch’esso si apprezzò notevolmente. Minori tassi d’interesse e un deprezzamento della moneta avrebbero aiutato l’Argentina ad uscire dalla crisi, ma avendo un cambio fisso questi strumenti erano inutilizzabili. La recessione del 2001 fece aumentare il deficit, incidendo così sul già insostenibile debito pubblico. Nel dicembre del 2001 l’Argentina fece default su parte del debito, anche a causa degli investitori che richiedevano tassi d’interesse sempre più alti sul debito pubblico, divenuto sempre più rischioso: nel 2002, l’Argentina abbandonò l’ancoraggio al dollaro ma la situazione è tutt’ora molto grave. Nel contesto di questa crisi, l’avere un cambio fisso contribuì innegabilmente alla caduta economica dell’Argentina.

Un cambio flessibile non potrebbe quindi risolvere tali problemi?

L’altra possibilità è quella di avere un cambio flessibile, lasciando così fluttuare la moneta senza agganciarla a nessun’altra valuta: adottando questa soluzione, il Paese non si priverebbe della sua politica monetaria. Attenzione però, perché scegliendo un regime di cambio flessibile si è totalmente esposti alle speculazioni degli investitori e dei mercati finanziari che potrebbero anticipare una svalutazione della moneta, pretendendo cosi livelli più alti di tassi d’interesse o, come detto precedentemente, vendendo i titoli a prezzi decisamente bassi per spostarsi su titoli di paesi esteri. Ciò potrebbe portare ad un deflusso di capitali, prosciugando il paese di valuta estera detenuta in deposito, e la valuta nazionale diverrebbe carta straccia. Attacchi speculativi del genere possono essere evitati grazie all’unione monetaria e alle manovre adottate dalla BCE, alle quali potrebbe aggiungersi l’OMT, una misura mai usata ma voluta fortemente da Mario Draghi durante la sua presidenza proprio per evitare attacchi speculativi su un paese in crisi.

In conclusione: moneta sovrana o unione monetaria?

Quanto descritto rende molto meno desideroso vedere un’Italia fuori dall’unione monetaria. SI pensi solamente alle cifre che il nostro paese dal punto di vista dell’export: nel 2018 sono stati esportati tra prodotti e servizi circa 462 miliardi di euro, con un aumento del 3,1%. Tra i primi partner commerciali restano ben salde posizioni di Germania e Francia, nostri partner e amici europei. In un momento di incertezza mondiale causata dalla guerra commerciale USA-Cina, dall’attuazione finale di Brexit e ora anche dall’epidemia di Covid-19, paventare un’uscita dall’Europa e dall’unione monetaria è assai irresponsabile.

In conclusione, appare certo che uscire dall’Europa e abbandonare l’unione monetaria non porterebbe altro che disastri economici in Italia, e anche solo continuare a discuterne nel dibattito politico potrebbe rivelarsi un errore da non commettere.

Articolo di Riccardo Romano Boiani

Fonti:

Il sole 24 ore

Libro “macroeconomia : una prospettiva europea” di Blanchard, Giavazzi

Sito MISE (ministero degli esteri e sviluppo economico)

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