Non pensare al futuro

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Articolo scritto da Luca Di Traglia, Analista economico.

Era il 1977 quando i Sex Pistols cantavano “no future” nel loro singolo God Save the Queen. Affermazione dietro la quale si nascondeva tutto il disagio di una generazione che, innamorata del proprio paese, implorava un cambio di policy per non vederlo implodere.

Ecco, quel no future dei Sex Pistols è quanto di più vero, almeno sotto alcuni punti di vista sociali ed economici, si possa gridare oggi in Italia.

Come è cambiato il futuro:

Joseph Schumpeter con il termine: “distruzione creativa”  ci spiega, attraverso una delle teorie economiche più importanti del ventesimo secolo, come l’introduzione costante di novi paradigmi economici e produttivi sia un’esigenza strutturale ed imprescindibile dell’economia dei capitali.

Fonte: il Sole 24 Ore
Fonte: il Sole 24 Ore

Le due figure mostrano, per il 2006 la prima ed il 2018 la seconda, la classifica delle prime dieci aziende al mondo per utili. Ad oggi il sistema economico globale ci appare diviso in due blocchi: da una parte l’America, con i suoi big player tecnologici, ricordiamo come Trump durante il suo mandato abbia tenuto gli studiosi cinesi lontani da università e aziende americane ad alto potenziale tecnologico. Dall’altro lato l’Asia, che appare maggiormente consolidata nel settore finanziario, ricordiamo sempre che la variabile presa in considerazione sono gli utili.

Lo scenario, in un lasso di tempo non lunghissimo, è profondamente cambiato a favore del mercato tecnologico e finanziario. Questi ultimi hanno scalzato dal podio colossi come: energia, industria e beni di largo consumo, imponendosi al mondo come nuovi beni di prima necessità.

Le aziende digitali, quelle vincenti, si sono sviluppate ed hanno conquistato o creato nuovi mercati collocandosi in posizioni dominanti che rendono complicatissima la concorrenza.

Tutto questo grazie, principalmente, ad altissimi livelli di conoscenza che le rendono monopoliste, garantendo così, attraverso rendimenti di scala crescenti, una diminuzione dei costi di produzione e la possibilità di aumentare gli utili.

L’industria digitale ed il suo indotto compongono un mercato in ascesa, che sicuramente nei prossimi anni cambierà, ma che avrà comunque un ruolo centrale all’interno dell’economia globale.

La risposta Europea:

Di questo la Commissione Europea ne è al corrente e dai primi anni 2000 ne ha, infatti, iniziato a discutere; nel 2010 viene pubblicata l’agenda digitale europea e dal 2015 si lavora per il mercato unico digitale. Viene sviluppato un indicatore sintetico denominato DESI ( digital economy and society index), quest’ultimo prende in considerazione cinque diverse variabili: connettività, capitale umano, utilizzo della rete internet, integrazione della tecnologia digitale e digitalizzazione della PA.

Fonte: Eurostat

Il grafico mostra, in ordine decrescente da destra a sinistra, il punteggio degli Stati membri rispetto al DESI 2020.

Sull’asse delle ordinate possiamo quindi quantificare all’interno dell’indicatore il valore assunto dalle singole variabili, mentre sulle ascisse troviamo collocati tutti gli stati membri.

I Paesi scandinavi riempiono il podio, mentre l’olanda rimane di poco fuori, a chiudere invece: Bulgaria, Grecia, Romania e quartultima l’Italia.

La questione Italiana:

L’Italia negli ultimi anni, attraverso il 5G e la digitalizzazione della PA, ha avuto un upgrade sotto il profilo della connettività e dei servizi pubblici digitali.

I dati peggiori li troviamo andando a valutare l’utilizzo delle tecnologie digitali applicate al sistema di produzione e commercializzazione, ovvero quanto e come i nuovi paradigmi tecnologici vengono utilizzati per fare impresa.

Il secondo valore negativo che l’indice DESI ci restituisce è una carenza strutturale sotto il profilo del capitale umano, intuitivamente collegata con la prima.

Proprio sul basso livello di questa variabile, secondo chi scrive, è essenziale fermarsi a riflettere se si vuole migliorare la condizione socioeconomica del paese, se si desidera dare un futuro all’Italia.

Il dato italiano del capitale umano, secondo la quantificazione DESI, è il più basso in Europa.

 Prendendo in considerazione la popolazione compresa tra i 16 ed i 74 anni:

  • solamente il 40% possiede competenze digitali di base, la media UE è al 58%
  • per le competenze digitali avanzate ci attestiamo intorno al 22% a dispetto di una media europea pari al 33%
  • gli specialisti formati per l’impiego nel settore ICT sono pari al 2,9%, la media europea è al 3,9%.[1]
Fonte: Eurostat

Sull’asse delle ordinate abbiamo la quantificazione del livello di capitale umano mentre sulle ascisse troviamo il tempo.

Come possiamo facilmente intuire la retta che descrive l’andamento per l’Italia è costantemente, negli ultimi presi in considerazione, sotto alla retta che descrive il valore medio del capitale umano nei paesi dell’Unione Europea. Negli ultimi mesi del 2017 si nota un’accelerazione per l’Europa, lo stesso non lo possiamo dire per l’Italia. Anche se la curva ha una lieve inclinazione positiva possiamo ugualmente concludere che i livelli non sono sufficienti per uguagliare gli altri paesi europei e che il divario è netto e rilevante. La risposta a tutto questo è insita nel problema stesso: l’investimento in conoscenza e l’ottimizzazione di questo.

Il presente articolo non ha né il compito di affermare che l’istruzione e la ricerca in Italia siano sottofinanziate, né analizzare il ruolo del settore privato in questo ambito.

Qui si vuole semplicemente esporre un fatto: l’economia mondiale si è spostata in settori dove noi come Europa e come Italia abbiamo delle profonde carenze. Queste sono colmabili solamente attraverso una politica economica che preveda importanti investimenti mirati alla costruzione di conoscenza.

La conoscenza è una questione larghissima. Sicuramente possiamo affermare che esistono delle hard skills e delle soft skills. Le prime sono le nostre competenze formali, la nostra formazione scolastica, in Italia sono molte di più le persone con solo la quinta elementare che quelle con la laurea; mentre le soft skills sono l’insieme della nostra cultura, consapevolezza ed esperienza.

La teoria economica ci dice che un investimento serio in conoscenza non è ben visto dalla politica, cioè da chi vota la legge di bilancio.

Questo avviene per due ordini di ragioni:

  • gli effetti positivi di un investimento in istruzione si percepiscono tangibili sono nel lungo periodo, tra i dieci ed i quindici anni. Nessun politico è interessato ad un aumento del consenso così distante nel tempo.
  • Un tale investimento non produce lo stesso impatto sul consenso rispetto a misure molto più mass mediatiche con un approccio diretto sull’ inconscio cognitivo dell’elettore.

La speranza è quella di sbagliarsi, che le PMI, la ristorazione ed il turismo anni Settanta siano il futuro. Ma se così non fosse, se davvero il futuro economico è costruito sulla conoscenza, allora, bisognerà solo ricordarsi che l’oro noi l’abbiamo in casa: sono tutte le generazioni di cui lo stato si è scordato, tutti quei ragazzi ai margini della società, invisibili, a cui il sogno più grande che abbiamo concesso si chiama reddito di cittadinanza.


Sitografia:

http://www.oecd.org/tax/beps/

https://argomenti.ilsole24ore.com/parolechiave/impresa-40.html

https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/europe-investing-digital-digital-europe-programme

https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/digital-economy-and-society-index-desi-2020

https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/policies/shaping-digital-single-market

https://ec.europa.eu/eurostat/web/employment-and-social-inclusion-indicators/digital-inclusion


[1] https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/digital-economy-and-society-index-desi

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