L’instabilità politica e l’esasperata ricerca del Consenso

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Articolo scritto da Francesco Mula, laureando in economia del settore pubblico, Unicatt.

Il 13 gennaio le tensioni interne alla coalizione di governo sono sfociate nel ritiro delle due Ministre, Bonetti (pari opportunità e famiglia) e Bellanova (politiche agricole), da parte del leader di Italia Viva, Matteo Renzi. 

E crisi di governo fu, l’ennesima per il nostro paese.

Non si tratta sicuramente di una novità per le cronache politiche italiane, infatti nei quasi settantacinque anni della Repubblica Italiana si sono succeduti ben 66 governi differenti, la cui durata viene indicata nel grafico sottostante.

GIORNI IN CARICA

Questa particolare classifica è guidata dal governo Berlusconi II in carica tra il 2001 e il 2005 per 1412 giorni, mentre all’estremo opposto si trova il primo governo Fanfani che nel 1954 rimase al potere per soli 22 giorni! 

Con un semplice calcolo si può vedere che la durata media dei governi della Repubblica è di circa 13 mesi, cioè poco più di un anno, veramente poco se paragonato ai cinque anni di durata “naturale” di una legislatura.

Per fare un parallelismo e contestualizzare meglio questi numeri, si pensi che i governi che si sono succeduti in carica dal 2005 ad oggi sono stati nove, mentre nello stesso periodo in Germania se ne contano quattro. 

Nel complesso, da questi numeri si può affermare che l’instabilità politica sia una caratteristica quasi strutturale della nostra Repubblica. 

Individuare le cause sottostanti al fenomeno richiederebbe un’analisi sociale politica e culturale molto complessa, ma non è questo lo scopo dell’articolo, l’obiettivo è piuttosto descriverne una specifica conseguenza: osservare come l’orizzonte temporale che caratterizza l’attività politica (già corto di per sé), si accorci ulteriormente in situazioni di instabilità politica. 

Le dinamiche di questo fenomeno appaiono più chiare alla luce di quanto affermato dalla teoria della Public Choice.

La Teoria della Public Choice

Lo sviluppo di questa teoria nasce dall’applicazione di alcuni principi economici allo studio dei meccanismi decisionali collettivi e politici, in quest’ottica il postulato dell’Homo Economicus (utilizzato per spiegare le scelte private degli agenti economici operanti nel mercato) viene esteso all’analisi del comportamento dei soggetti che agiscono in un ambito pubblico: elettori, politici, burocrati e gruppi di interesse; perciò in questo contesto i soggetti sopracitati agiscono come attori razionali il cui unico obiettivo è massimizzare la propria utilità. 

Dunque, osservando la realtà con il punto di vista della Public Choice, gli individui che si trovano in posizioni decisionali politiche ed amministrative non hanno come obiettivo ultimo il bene comune ma solamente mantenere il potere; questo nel mondo politico è possibile solo se si ha abbastanza consenso per essere rieletti. 

La ricerca del consenso

In generale, la ricerca del consenso è una caratteristica intrinseca delle democrazie, si tratta perciò di un fattore fisiologico, tuttavia, in quelle situazioni in cui vi è maggior instabilità politica il rischio è che questo elemento diventi patologico, cioè che comporti un appiattimento dell’orizzonte temporale di riferimento delle decisioni politiche sul presente, portando a preferire dunque l’uovo oggi piuttosto che la gallina domani. 

Infatti, in una situazione in cui i governi durano poco e spesso nascono da compromessi tra più parti, la consapevolezza dei decisori riguardo la fragilità del potere nelle loro mani li porterà a evitare decisioni lungimiranti, perché spesso comportano minori vantaggi nell’immediato, favorendo invece provvedimenti che possano portare benefici nel breve periodo all’elettorato di riferimento dei singoli politici, ma che molto spesso si rivelano un boomerang per le generazioni successive che dovranno sostenere il peso di queste scelte.

Il ragionamento si applica naturalmente anche alle opposizioni, che per riuscire a ottenere il consenso (e quindi il potere) sono spinte a fare promesse molto generose nei confronti del proprio elettorato, e se elette, sono costrette a mantenere gli impegni presi, pena la mancata rielezione e dunque la perdita di potere, e di utilità (nell’accezione microeconomica del termine).

In una situazione di questo tipo la competizione elettorale si amplifica sia nei toni che nella durata e la ricerca del consenso viene esasperata. 

Effettivamente, osservando la storia repubblicana, si possono riscontrare numerosi indizi che confermano queste dinamiche, innanzitutto i toni: non è infatti un caso che la scena politica italiana sembri perennemente in campagna elettorale; altri elementi di conferma sono ad esempio la bassa sostenibilità del debito pubblico o del sistema pensionistico, proprio perché una correzione della direzione di questi due fattori comporterebbe minori vantaggi nel presente; difatti le uniche riforme lungimiranti del sistema pensionistico sono state realizzate da governi tecnici, che per loro stessa natura sono meno soggetti alle dinamiche del consenso.  

Conclusioni e Possibili soluzioni

Dunque, come è possibile evitare che la ricerca del consenso sovrasti l’interesse nazionale riducendo eccessivamente l’orizzonte temporale delle politiche economiche?

Il “first best” (nell’accezione meno tecnica dell’espressione) potrebbe essere quello di intervenire direttamente sull’elettorato ampliandone l’orizzonte temporale su cui valuta gli effetti di una proposta. Non bisogna dimenticare, infatti, che la classe politica è semplicemente lo specchio della società di un paese.

Un elettorato più istruito e informato potrebbe, ad esempio, essere in grado di comprendere meglio le conseguenze negative di lungo periodo di alcuni provvedimenti e pertanto rifiutare il candidato che le propone, favorendo di conseguenza chi promuove politiche più lungimiranti. 

Questa soluzione è senza dubbio la più affascinante, ma anche la più difficile da realizzare, infatti non sembra esserci nessun incentivo per l’attuale classe politica a favorire in qualche modo lo sviluppo di una maggior lungimiranza dell’elettorato. 

Per questo è importante valutare anche proposte alternative o complementari. 

Un’altra soluzione, decisamente più pragmatica, è invece rappresentata dai vincoli esterni posti all’azione di governo, i quali possono ridurre le conseguenze negative descritte nell’articolo, impedendo ai governi di realizzare proposte economiche poco sostenibili che andrebbero a penalizzare le future generazioni a favore di quelle presenti; se però i vincoli imposti sono troppo stringenti si corre il rischio di irrigidire la politica economica rispetto alle esigenze contingenti. 

Questa soluzione viene avanzata dagli stessi esponenti della Public Choice che arrivano a proporre un vincolo di bilancio costituzionale. Anche i paesi dell’Unione Europea hanno optato per questa soluzione, difatti un’unione monetaria ma non politica rischia di implodere se non vengono posti dei limiti all’azione dei singoli governi nazionali.

Una diretta conseguenza di questa decisione si può trovare nell’articolo 81 della Costituzione, che dal 2012 prevede l’obbligo di pareggio di bilancio in termini strutturali (cioè depurato dagli effetti del ciclo economico e dalle misure una tantum). Ma per evitare di rendere troppo rigide queste condizioni sono state introdotte successivamente una serie di clausole, e proprio una di queste ha permesso la sospensione dei vincoli nel periodo della pandemia.

Dunque, nella situazione attuale, l’unico argine alle conseguenze negative della continua competizione politica per il consenso in Italia sembra essere rappresentato dai trattati europei; mi è infatti difficile scorgere un qualche segnale positivo dall’attuale scena politica italiana dominata dalla demagogia.

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