La gestione delle crisi bancarie: auto-salvataggio e mano pubblica

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Articolo di Leonardo Moscatelli, studente magistrale di Banking and Consulting, Università Cattolica del Sacro Cuore

Analisi degli strumenti previsti dalla BRRD per contrastare e risolvere le crisi degli istituti di credito nel territorio dell’Unione Europea.

Le crisi bancarie e il loro possibile epilogo nel fallimento sono temi affrontati a più riprese dall’Italia e dall’Europa, in particolare dopo la crisi americana dei mutui subprime.

I periodi post-crisi hanno sempre portato, nella legislazione di questo settore, novità normative e definizioni di nuove procedure per prevenire e sanare le congiunture negative degli istituti di credito.

A seguito della crisi finanziaria del 2008 e di quella dei debiti sovrani europei degli anni immediatamente successivi è stata emanata, nel 2014, una direttiva europea a riguardo: la Banking Recovery and Resolution Directive (c.d. BRRD).

Tale testo ha permesso la predisposizione di nuovi strumenti per condurre gli istituti fuori dalla tempesta o, qualora manchi un interesse pubblico, affondare la nave in maniera controllata.          La stesura della direttiva è stata guidata dall’obiettivo di ridurre i costi sostenuti dagli Stati, quindi dai contribuenti, per il salvataggio di enti privati quali sono le banche: a tale scopo sono stati costituiti fondi destinati, alimentati da contributi degli istituti stessi. 

Nel nostro paese è stato costituito dalla Banca d’Italia (nostra autorità di risoluzione) il Fondo Nazionale di Risoluzione.

La BRRD contiene quattro possibili procedure da attivare, singolarmente o congiuntamente, in maniera tale da evitare interruzioni nella prestazione dei servizi essenziali offerti (es. i depositi e i servizi di pagamento), ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e liquidare la parte complementare.

Tali procedure sono:

  • Vendita dell’attività di impresa;
  • Costituzione di un ente-ponte;
  • Separazione delle attività;
  • Bail-in.

Il loro accesso è regolato dalle seguenti condizioni:

  1. l’autorità competente, previa consultazione dell’autorità di risoluzione, ha stabilito che l’ente è in dissesto o a rischio di dissesto; 
  2. tenuto conto della tempistica e di altre circostanze pertinenti, non si può ragionevolmente prospettare che qualsiasi misura alternativa per l’ente in questione, incluse misure da parte di un Institutional Protection Scheme, sotto forma di intervento del settore privato o di azione di vigilanza, tra cui misure di intervento precoce o di svalutazione o di conversione contrattuale degli strumenti di capitale, permetta di evitare il dissesto dell’ente in tempi ragionevoli; 
  3. l’azione di risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico.

La vendita dell’attività d’impresa consente alle autorità di vendere le attività, i diritti o le passività dell’ente a uno o più acquirenti (diversi dall’ente-ponte) senza ottenere il consenso degli azionisti o di terzi diversi dall’acquirente e senza ottemperare agli obblighi procedurali del diritto societario o della legislazione sui valori mobiliari diversi da quelli di cui all’articolo 39 della Direttiva.

I proventi netti derivanti dalla cessione totale o parziale delle attività o passività dell’ente, qualora ce ne siano, devono andare a beneficio dell’ente stesso cosi come i proventi derivanti dalla cessione di azioni o altri titoli di proprietà da questo emessi devono andare a beneficio dei titolari.

La costituzione di un ente-ponte partecipato in tutto o in parte da una o più autorità pubbliche, o dall’autorità di risoluzione, ha come finalità principale la garanzia che i clienti dell’ente in dissesto continuino a ricevere i servizi finanziari essenziali e che si continuino a svolgere le attività finanziarie fondamentali.

Questo strumento deve essere gestito con economicità e si può riassumere in una cessione temporanea di rami di attività da parte della banca all’ente stesso.

Dopo la costituzione dell’ente e le cessioni l’autorità di risoluzione, quando le condizioni finanziarie lo consentano, può:

  • ritrasferire diritti, attività o passività detenuti all’ente soggetto a risoluzione, ovvero ritrasferire le azioni o altri titoli di proprietà ai proprietari originari, che sono obbligati a riprenderli;
  • cedere gli stessi a un terzo soggetto.

Lo strumento della separazione delle attività permette alle autorità di cedere attività, diritti o passività di un ente soggetto a risoluzione ad un veicolo di gestione delle attività.

Con tale denominazione si identifica un soggetto giuridico che risponde ai seguenti requisiti:

– è interamente o parzialmente di proprietà di una o più autorità pubbliche che possono includere l’autorità di risoluzione o il meccanismo di finanziamento della risoluzione ed è controllato dall’autorità di risoluzione; 

– è stata costituito al fine di ricevere, in tutto o in parte, le attività, i diritti o le passività di uno o più enti soggetti a risoluzione o di un ente-ponte secondo le finalità dello strumento sopracitato.

Le finalità di tale strumento non differiscono sensibilmente da quelle di cui sopra: anche in questo caso è prevista la possibilità di ripetizione degli asset oltre alla loro liquidazione tramite la commercializzazione.

Questo strumento dovrebbe essere utilizzato solo unitamente ad altri strumenti per impedire un indebito vantaggio a favore dell’ente in dissesto consistente nella cessione di attività ad una società veicolo a ciò predisposta e non dovendo dunque esporsi sul mercato alla ricerca di una controparte; le norme regolanti il trasferimento sono le stesse già citate per la vendita dell’attività d’impresa.

Il bail-in (salvataggio interno) costituisce una procedura particolare, diversa da tutte le altre già analizzate.

Esso mira a proteggere la collettività dai costi legati al dissesto di un intermediario finanziario, facendo ricadere tali oneri sui soggetti proprietari dell’ente e sui suoi creditori nel seguente ordine di priorità decrescente:

  • azionisti;
  • detentori di altri titoli di capitale e altri creditori subordinati; 
  • creditori chirografari;
  • persone fisiche e pmi titolari di depositi, per l’importo eccedente € 100.000;
  • il fondo di garanzia dei depositi che contribuisce alla procedura al posto dei depositanti protetti.

Esso consente alle autorità di risoluzione di disporre, al ricorrere delle condizioni di risoluzione, la riduzione del valore delle azioni e di alcuni crediti o la loro conversione in azioni per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in misura sufficiente a ripristinare un’adeguata capitalizzazione e a mantenere la fiducia del mercato.

Tali misure si applicano anche agli strumenti già emessi e in possesso degli investitori ma gli azionisti e i creditori non possono, in nessun caso, subire perdite maggiori di quelle che sopporterebbero in caso di liquidazione della banca secondo le procedure ordinarie.

La svalutazione del valore nominale ha carattere permanente: all’ente non rimane in capo alcun obbligo nei confronti dei detentori di strumenti di capitale riguardo l’importo svalutato ma sono fatti salvi gli obblighi maturati precedentemente all’avvio della procedura.

Nonostante la Banking Recovery and Resolution Directive sia stata pensata e redatta per mantenere gli effetti della crisi di una banca o più in generale di un intermediario finanziario in capo ai soggetti detentori dei titoli di capitale o di debito dello stesso, è prevista la possibilità di partecipazione degli Stati alla ricapitalizzazione degli enti.

La BRRD prevede due possibili modalità di intervento ai sensi degli artt. 57 e 58:

– Strumento pubblico di sostegno del capitale: nel rispetto del diritto societario nazionale, gli Stati membri possono partecipare alla ricapitalizzazione di un ente mettendo a disposizione capitali in cambio di:

  • strumenti del capitale primario di classe 1; 
  • strumenti aggiuntivi di classe 1 o strumenti di classe 2.

– Proprietà pubblica temporanea: gli Stati membri possono eseguire uno o più ordini di trasferimento azionario in cui il cessionario sia 

a) un rappresentante designato dello Stato membro; oppure 

b) una società interamente di proprietà dello Stato membro.

In entrambi i casi, per quanto concerne le loro quote, questi devono garantire che tali enti siano gestiti su base commerciale e professionale, cedendo le partecipazioni al settore privato non appena le circostanze commerciali e finanziarie lo consentano.

L’interrogativo che spesso viene posto concerne il motivo per il quale la collettività debba pagare per la mala gestione delle amministrazioni di questi enti.

Il buonsenso porterebbe a non trovare alcuna giustificazione ma, in realtà, bisogna tener presente che gli istituti creditizi e gli intermediari finanziari sono fondamentali nel modello economico occidentale e rivestono un ruolo chiave di pubblica utilità, nonostante siano soggetti di diritto privato.

Tali motivi, per quanto sembrino esigui, sono necessari e sufficienti a giustificare l’inserimento di questo elemento contraddittorio nella normativa, purché venga considerato come extrema ratio, soluzione ultima per il salvataggio.

Le stesse ragioni non possono però giustificare, in nessun caso, la mala gestione delle amministrazioni: un problema fortunatamente non diffuso ma comunque grave nella sua eccezionalità, soprattutto se si contempla la possibilità di far sostenere i costi ai cittadini.

L’impiego di fondi pubblici per tenere in vita imprese in difficoltà è una pratica alla quale le nostre istituzioni sono particolarmente affezionate, alcune volte questa spesa può risultare sensata e altre meno. 

È doveroso concludere con uno spunto di riflessione: quando lamentiamo l’erogazione di 8,1 miliardi di euro che, per inciso, oggi valgono 650 milioni, a favore di una delle cinque maggiori banche italiane allora consideriamo, dall’altro lato dell’equazione, che i fondi erogati per Alitalia (per citarne una) sono stati pari a 12,6 miliardi senza aver ottenuto alcun ritorno.

L’interesse pubblico nei due salvataggi non è proprio confrontabile…due pesi e due misure?

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