Cos’è il populismo e quali sono le armi del suo successo

Share on facebook
Share on twitter
Share on linkedin
Share on whatsapp
Share on email

Articolo scritto da Francesco Baraccani, studente di Economia e Commercio @Università di Firenze

Nella prima parte di questo articolo andremo a definire a cosa ci si riferisce con la parola “populismo”.

Nel secondo paragrafo si solleveranno poi 2 particolari teorie generalmente utilizzate per spiegare il successo degli ultimi decenni di tali movimenti politici e delle quali, nell’ultimo paragrafo, sarà mostrata una prova empirica del loro effettivo impatto.

Cos’è il populismo?

Come descritto in “Populism” (Mudde Cas and Cristóbal Rovira Kaltwasser. Populism: A very short introduction. Oxford University Press, 2017), questo termine è stato utilizzato in aree geografiche diverse per descrivere fenomeni rispettivamente differenti. Gli autori, cercando di descriverne gli aspetti fondamentali, definiscono il populismo come un’ideologia che considera la società suddivisa in un gruppo di “uomini puri” e in quello dell’elite, contrapposto al primo, corrotto e che sostiene che la politica dovrebbe consistere nell’espressione della volontà generale del popolo. Gli stessi definiscono tale filosofia come “debolmente focalizzata”, evidenziando così la sua necessità di essere affiancata ad altre ideologie che possano essere funzionali alla promozione di un progetto politico e non potendo perciò essere associata in modo univoco ad un particolare modello di comportamento.

Mudde e Kaltwasser, di seguito, evidenziano 3 elementi comuni in ogni configurazione del fenomeno, ai quali sono legate politiche populiste ricorrenti. Il primo di tali elementi è “il popolo”, inteso a seconda dei casi come:

  1. la nazione, formata da tutti i nativi di un paese e minacciati dagli immigrati, ma anche dagli interessi egoistici delle altre nazioni. A questa concezione sono legati appelli nazionalisti, xenofobi e contrari alla cooperazione internazionale.
  2. Come gruppo contrapposto all’‘‘elite”, il secondo elemento ricorrente. Quest’ultima può essere a sua volta concepita come formata dalla cerchia ristretta di coloro detengono il potere, sottraendolo così illegittimamente all’intero popolo, oppure composta da coloro che appartengono alle classi sociali più elevate e che impediscono al resto della comunità di poter governare a causa della loro inferiorità sociale. A questa visione sono prevalentemente legate sollecitazioni di meccanismi di democrazia maggioritaria o diretta, a scapito di meccanismi di rappresentanza e tutela delle minoranze.

La terza componente frequente nei movimenti populisti è costituita dalla “volontà generale” dei cittadini, ossia ciò che la maggioranza di questi preferisce di fronte ad ogni scelta politica e che, secondo la visione in questione, difficilmente un sistema democratico proporzionale può accogliere in modo preciso e tempestivo. Viene proclamata nella critica ai vertici di governo, ritenuti incompetenti e disinteressati nel soddisfarla, nonché ai meccanismi di voto vigenti per la scelta dei rappresentanti politici se valutati come non idonei ad esprimerla. In risposta a queste mancanze, sono associate tendenze autoritarie che favoriscono l’assegnazione di ampi poteri a leader carismatici capaci di rispondere a tali esigenze.

Come è cresciuto il supporto per i partiti populisti

% media di voto a supporto di partiti populisti, classificati in base a dati CHES (2014), per decennio dal 1960 al 2014.[1]

Fonte: Holger Döring and Philip Manow. 2016. Parliaments and governments database (ParlGov) ‘Elections’ dataset: http://www.parlgov.org/

Uno studio effettuato dai politologi R. F. Inglehart e P. Norris mostra che la percentuale di voti per partiti populisti è raddoppiata negli ultimi 20 anni, in particolare nei paesi occidentali.[2] Nel relativo articolo, gli stessi si focalizzano in particolare sull’analisi di 2 cause comunemente attribuite a tale incremento di supporto e legate al ruolo degli elettori.

La prima delle 2 ragioni citate nello studio riguarda l’aumento di disparità economiche tra le classi più ricche e quelle più povere. Secondo T. Piketty, all’origine della crescente disuguaglianza vi è la stagnazione o la riduzione del reddito reale nelle economie occidentali negli ultimi decenni, la quale ha fatto sì che solo il 10% più ricco della popolazione si sia avvantaggiato dei guadagni derivanti dalla crescita economica di questo periodo.[3] Le circostanze così create, si ipotizza abbiano favorito il sostegno da parte del popolo di promesse di restaurazione della prosperità economica socialmente condivisa, tipica dell’epoca del post-guerra e sfruttate da leader populisti (es. lo slogan “We will make America great again” di Trump). Inoltre, come sostenuto da H. G. Betz, i ceti più svantaggiati sono più propensi ad appelli xenofobi e l’elettorato sostenitore di politiche razziste si è perciò accresciuto.[4]

La seconda teoria trattata nell’articolo, è legata invece al supporto di valori progressisti. In particolare, ricerche basate su sondaggi mostrano che la condivisione di principi cosiddetti “post-materialisti” sia in crescita dalla metà del secolo scorso e che questi siano principalmente appoggiati dai nati nel dopo-guerra e dai più istruiti.[5] I partiti si sono ritrovati perciò a dover priorizzare temi culturali tra le proprie finalità, facendo sì che la competizione e l’identità politica si sia mossa sul piano dei valori di riferimento piuttosto che sul piano dell’ideologia economica appoggiata.

Questa evoluzione ha però condotto i sostenitori dei valori più tradizionali, che, sempre secondo i suddetti sondaggi, si identificano principalmente in uomini, meno istruiti e più anziani, a provare incertezza nel veder modificati i principi sui quali si basava la società del passato e risentimento verso chi promuove tale cambiamento. I leader populisti si assume abbiano quindi aumentato il bacino dei propri sostenitori annunciando politiche tradizionaliste.

L’evidenza empirica: quale delle 2 teorie si riscontra con la realtà

Per provare empiricamente l’impatto effettivo che le 2 teorie sopra citate hanno, gli autori hanno innanzitutto cercato uno strumento quanto più oggettivo per identificare i partiti europei populisti. Il mezzo scelto per ottenere tale risultato è il questionario CHES del 2014, a cui 337 politologi europei hanno risposto valutando da 1 a 10 una serie di caratteristiche predeterminate dei 268 partiti degli stati coinvolti.[6] Le caratteristiche giudicate sono state poi suddivise in economiche e culturali ed i valori ad esse assegnate ed appartenenti alla stessa categoria sommati: in questo modo è stato poi possibile classificare rispettivamente come di destra o di sinistra le frazioni politiche analizzate, nonché se populiste o cosmopolite (volendo indicare con quest’ultimo termine l’orientamento opposto a quello associato all’alternativa), valutando l’intensità (da 1 a 100) con cui ciascun aspetto veniva manifestato.

Posizionamento dei partiti italiani menzionati nel questionario secondo il processo descritto da Ingleahart e Norris dei dati CHES 2014.[7] I valori sono standardizzati sulla base di ciascuno dei 268 partiti coinvolti. È inoltre importante evidenziare che la correlazione positiva tra destra e populismo evidente nel grafico, può essere originata da un fattore prevalentemente culturale e che perciò in altri paesi (ad esempio negli ex regimi comunisti) la relazione possa essere invertita.

Fonte: rielaborazione propria

Il secondo passo è stato poi utilizzare i dati dell’European Social Survey ottenuti dal 2002 al 2014 per poter identificare le caratteristiche sociali tipiche dei sostenitori dei partiti populisti, ossia, tra le 293’856 persone che hanno risposto, coloro che avevano espresso preferenze di voto per partiti con un punteggio di almeno 80 nei valori culturali nella classificazione sopra esposta. In questo modo è stato successivamente possibile effettuare una regressione logistica, ossia un modello che permette di individuare quali caratteristiche, culturali o economiche, aiutino a prevedere se un soggetto sostenesse o meno un partito populista in quel momento.

Modello di regressione logistica con variabile dipendente binaria costituita dalla dichiarazione della preferenza per un partito populista (1) o viceversa (0). Con Sig.“*” si indica un valore con p-value <=10%, con “**” uno con p-value <=5%, con “***” uno con p-value <=1% e con N/S un valore non significativamente diverso dall’ipotesi nulla che lo stesso coefficiente sia pari a 0 (ininfluente).

Fonte: The European Social Survey Cumulative File Rounds 1-6 (ESS1-6). N. 182217

Il modello “A” (nella prima colonna della tabella riportata sopra) indaga sulle variabili di controllo, ossia quelle che non costituiscono il principale oggetto di studio, ma influenti sulle preferenze di voto e che perciò, se ignorate negli altri modelli, comporterebbero stime sbagliate per gli altri indicatori. Come descrivono gli autori, possiamo da qui notare che:

  1. le persone più anziane nel campione di soggetti erano in media più propense a supportare partiti populisti;
  2. che lo stesso valeva per il genere maschile;
  3. si osserva che esisteva una correlazione negativa tra la probabilità che le stesse persone sostenessero le frazioni politiche indagate ed il livello di studio acquisito da questi;
  4. si nota una correlazione positiva con l’intensità della loro religiosità;
  5. che coloro che rientravano nelle minoranze etniche appoggiassero in media maggiormente idee politiche più “cosmopolite”.

Il modello “B” mostra invece i coefficienti degli indicatori di insicurezza economica, pur considerando sempre l’influenza che le caratteristiche demografiche e sociali sopra descritte avevano sulle preferenze politiche. In questo secondo caso, quindi, Inglehart e Norris cercano un’evidenza empirica della teoria che associa il disagio economico all’aumento del populismo. Da questa colonna è possibile osservare che rispetto al ceto più alto (quello dei manager e professionisti, estromesso in quanto categoria di “default”), i soggetti appartenenti alle classi sociali alternative erano in quel momento generalmente più favorevoli alle idee politiche descritte nel primo paragrafo, ma che il più ampio supporto provenisse dai ceti medi (“petite bourgeoisie”) e non da quelli più bassi. Analizzando le altre variabili indipendenti, i 2 suddetti politologi fanno poi notare come coloro che per sostentarsi dipendevano da sussidi pubblici, dichiaravano in media di essere meno inclini a sostenere partiti populisti e che questo sembra andare contro alla prima delle 2 ipotesi indagate nel secondo paragrafo.

Attraverso il modello “C”, viceversa, si cerca di testare l’impatto delle cause evidenziate dalla seconda teoria riportata, concentrandosi perciò su caratteristiche culturali. Come si può notare dalla tabella, la relazione media tra queste e la propensione a sostenere movimenti populisti assume una direzione intuibile se si considerano le tendenze politiche sottolineate nel primo paragrafo, ma ciò che qui è più rilevante per gli autori è che la capacità di prevedere l’effettivo supporto politico di un soggetto attraverso le variabili in questione (misurato dall’R2, nella penultima riga di ogni colonna), in questo modello aumenta rispetto ai modelli precedenti, evidenziando che le proprietà culturali influiscono di più nel favorire i populisti.

I modelli successivi, che aggiungono all’indagine ulteriori particolarità, mostrano una certa stabilità nei risultati mostrati nel terzo, dimostrando verosimilmente una cosiddetta distorsione da variabile omessa nella regressione con le variabili economiche, e che la capacità di prevedere l’esito effettivo non varia di molto rispetto al modello con i regressori culturali. In altre parole, nel documento riportato si sostiene che questi risultati dimostrano che la terza colonna mostra lo strumento più efficace e “parsimonioso”.

Conclusioni

L’esito dello studio empirico sopra mostrato, dimostra quindi che è con tutta probabilità un errore attribuire la responsabilità del successo dei movimenti populisti alla crescente disuguaglianza e che sia invece costituito da condizioni psicologiche e culturali il “terreno fertile” di tali frazioni politiche. Più precisamente, si può quindi sostenere la teoria per cui tale crescita di elettorato sia dovuta principalmente alla strumentalizzazione politica dell’insicurezza e del conseguente risentimento provati dalle categorie sociali meno considerate dai movimenti progressisti, i quali sono aumentati ed hanno acquisito forza negli ultimi decenni.


[1] Ryan Bakker, Erica Edwards, Liesbet Hooghe, Seth Jolly, Gary Marks, Jonathan Polk, Jan Rovny, Marco Steenbergen, and Milada Vachudova. 2015. “2014 Chapel Hill Expert Survey.” Version 2015.1. Available on chesdata.eu. Chapel Hill, NC: University of North Carolina, Chapel Hill

[2] Inglehart, Ronald F. and Norris, Pippa, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash (July 29, 2016). HKS Working Paper No. RWP16-026, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=2818659 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.2818659

[3] Ingleahart and Norris, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash cit., p.10

[4] Ingleahart and Norris, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash cit., p.11

[5] Ingleahart and Norris, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash cit., p.13

[6] Bakker, Edwards, Hooge, Jolly, Marks, Polk, Rovny, Steenberg and Vachudova, 2014 Chapel Hill Expert Survey cit.

[7] Ingleahart and Norris, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and Cultural Backlash cit., p.17

Iscriviti alla newsletter

DIPENDE: la newsletter settimanale in cui ti racconto e dico la mia sugli avvenimenti più importanti nel panorama economico e politico italiano

Facciamoci una chiacchierata

Scrivimi per qualsiasi richiesta

Contattami