Come sarà il mondo nell’era post covid

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Articolo scritto da Carola Mantini, Avvocato praticante, Laureata in Giurisprudenza e Scienze Politiche

L’OECD ha pubblicato il suo annuale report sul lavoro, in un periodo così complesso è una profonda analisi di come dovremmo pensare e progettare il mondo dell’era post-Covid. Queste proposte vanno pensate per ogni singolo Paese, la situazione italiana, la più colpita in Europa dalla pandemia e ostaggio di apparati statali non efficienti e di una classe politica instabile e poco formata, farà fatica a realizzare progetti così rivoluzionari.

È nei momenti di vera emergenza che riconsideriamo il mondo in cui viviamo. Cose che finiscono sotto il tappeto in periodi di normalità, in tempo di crisi emergono prepotenti mostrando il loro volto più fragile.

Questo avviene anche con il sistema economico di un Paese. L’OCED (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, conta 37 Stati membri fra quelli aventi un PIL pro capite medio-alto) ha pubblicato l’Employment Outlook 2020 nel bel mezzo della più grave epidemia del secolo, che per ora non accenna a decrescere, soprattutto in posti cruciali come gli Stati Uniti. Il Segretario Generale, nella sua introduzione, rievoca momenti come la Grande Depressione, che, come poi mostreranno le stime, appare una visione rosea ed edulcorata della situazione profilatasi per via del COVID-19. 

Il tasso di disoccupazione, oltre ad essere aumentato di 3 punti percentuali in quattro mesi (5.3% in gennaio rispetto all’8.4% di maggio) potrebbe arrivare a toccare i picchi degli anni ’30, arrivando ad un ottimistico 9,4% nel quarto trimestre del 2020. Coloro che accuseranno maggiormente la crisi sono le fasce più deboli, gli anziani, i lavoratori sottopagati, le donne, gli immigrati, i bambini e i giovani (non manca nessuno all’appello). Ma ciò che si teme di più è una seconda ondata, che riuscirebbe ad oscurare ulteriormente la già precaria situazione.

Gli sforzi messi in atto dai Paesi per affrontare l’emergenza sono impareggiabili, constando di trilioni di dollari. Tuttavia questo non sembra essere sufficiente, perché quello che è emerso è una fragilità di fondo che rende il nostro mondo solamente in apparenza stabile e sicuro. Ciò che era stato faticosamente recuperato dalla crisi del 2008 (ovvero due punti percentuali in più sul tasso di occupazione, arrivando al 68.9%) è stato spazzato via in una manciata di mesi. 

“In times of crisis, ‘normality’ sounds very appealing. However, our normal was not good enough for the many people with no or precarious jobs, bad working conditions, income insecurity, and limits on their ambitions. We need to capitalise on the momentum created by the strong initial national responses to the crisis, and build better policies for better lives in the post-COVID world”. 

Questo sistema ha enormi falle, la pandemia le ha solo portate alla luce.

I cinque punti dell’OECD.

Per un recupero che renda più forte l’economia mondiale l’OCSE ha invitato gli Stati ad investire in cinque macroaree che saranno cruciali – e forse avrebbero dovuto esserle anche prima – per il mondo che permetta a sempre più persone adeguati standard di vita e di lavoro. 

Inevitabilmente, nel leggerle, non può non venire in mente la situazione del nostro Paese, in cui i piani di investimento sono stati proposti, e ora sono ancora argomento di dibattito politico anche all’interno della stessa maggioranza, che ora più che mai dovrebbe agire solertemente per evitare il peggio.

Ma vediamo nel dettaglio quali saranno i punti programmatici. 

Lavoro

La priorità è conservare i posti di lavoro, supportando le imprese per fare fronte all’emergenza. Durante i lockdown molteplici sono stati gli aiuti implementati ad aziende e lavoratori per compensare la mancata produzione, ma ora bisognerebbe fornire incentivi per far ripartire in sicurezza aziende e dipendenti anche fornendo prestiti con una restituzione dilazionata nel tempo oppure a tasso zero. Insomma, basta con l’assistenzialismo, tornate a camminare con le vostre gambe e, in caso le difficoltà dovessero perdurare, otterrete facilmente agevolazioni.

In Italia, essendosi fermata la maggior parte della produzione, molti dipendenti sono stati messi in Cassa Integrazione per evitare licenziamenti, tuttavia i ritardi nella distribuzione dei compensi – complice anche un INPS oberata di lavoro sclerotizzata in inutili e deleterie lungaggini amministrative –  e il dialogo scarno e approssimativo fra il mondo imprenditoriale e il governo – fermatosi soprattutto sull’argomento imposte e tasse, stanno rendendo molto difficile permettere alle imprese di tornare a lavorare a pieno regime. 

Nonostante questo, non si potrà evitare un esubero di lavoratori, e per questo il secondo punto.

Consulenza e centri per l’impiego

Categoria che è assolutamente cresciuta in ambito europeo ed internazionale, la consulenza strategica per aziende e lavoratori ha ottenuto un incredibile riscontro all’interno del mercato. Per collocare nuovamente coloro che inevitabilmente resteranno senza un’occupazione, l’OCSE promuove gli investimenti in attività pubbliche e private che aiutino nella ricerca del lavoro.

In Italia i Centri per l’Impiego sono da sempre considerati un’operazione che la maggior parte degli inoccupati fa semplicemente per scrupolo. La percentuale di chi ha trovato lavoro grazie ai CPI nel 2018 – quindi lontani dall’emergenza – era solo del 2,1%. Questo dimostra ampiamente l’incapacità di fare da ponte tra impresa e lavoratore. 

Il sussidio di disoccupazione che, secondo la compagine politica che l’ha tanto promosso e osannato, avrebbe dovuto eliminare la povertà, ha semplicemente creato una categoria di soggetti che per l’amplissima maggioranza dei casi non è riuscita (o non era intenzionata) a trovare lavoro. Vi è un esercito di 2.370.938 persone che usufruisce del RDC e a fine 2019 solo 40mila di loro ha trovato lavoro, circa l’1,7%.

Il problema è ben più radicato di quanto possa esserlo in altri Stati, trovare lavoro tramite un’agenzia pubblica quale è attualmente il Centro per l’Impiego italiano, risulta veramente un’odissea.

Smart working

La pandemia ha sfondato le barriere di questo mezzo dalle mille potenzialità per l’organizzazione delle attività d’impresa, che ha portato a lavorare efficacemente da casa lo strabiliante 39% dell’intera popolazione attiva. 

In Italia lo smart working aiuterebbe a colmare l’emigrazione che subiamo da anni, ovvero lo svuotarsi costante e preoccupante del Mezzogiorno, che porta tantissimi giovani ad essere costretti ad andare al Nord o all’estero per trovare la dignità di un lavoro ben retribuito per l’educazione ricevuta e faticosamente guadagnata. Ma basta guardare la mappa della copertura della fibra ottica la banda ultralarga (500-gigabit) copre il 10,4% della popolazione – comparata all’indagine svolta sugli studenti che hanno seguito lezioni online per figurarsi plasticamente quanto negli ultimi trent’anni il nostro Paese abbia investito pochissimo in innovazione e tecnologie.

In aggiunta, secondo la Relazione Annuale 2020 di Agcom:

  • 25 ragazzi su 100 hanno avuto problemi nella velocità di connessione
  • 19 su 100 hanno segnalato che non tutta la classe ha partecipato alle lezioni online
  • Quasi 10 su 100 hanno segnalato la mancanza di dispositivi idonei.

Fino a che non capiremo che l’infrastruttura digitale è fondamentale come quella reale, continueremo a subire il gap con gli altri Paesi europei. 

Green

Non che vi sia molto da spiegare a riguardo. L’OCSE ne ha fatto riferimento come di una conversione non più rimandabile. La situazione ambientale del nostro Paese è sempre stata alquanto fragile, ed è innegabile. Ciononostante la consapevolezza di una vita più green ha permeato ogni fascia della popolazione. A livello di riscontro di impresa tuttavia lascia un po’ a desiderare, anche perché gli incentivi statali finora elargiti (agevolazioni per auto elettriche, bonus monopattino ecc..) non sembrano essere stati così incisivi, se non implementati da misure che rendano effettivamente la vita più semplice per coloro che vogliono vivere in maniera più green, se le aziende non vengono agevolate nella conversione.

Per ora nel progetto da presentare al Recovery Plan la parola ambiente viene fuori in sordina da qualche dibattito politico e dalla riunione degli Stati Generali, ma non sembra profilarsi quella rivoluzione che darebbe nuovo respiro al Paese.

Giovani e università

“La classe del Corona, i laureati di quest’anno, stanno uscendo da scuole ed università con poche chance di trovare lavoro o tirocinio quest’estate o in autunno” recita il report”.

Se c’è una categoria che non è stata mai nominata all’interno del dibattito di questi mesi, nei provvedimenti presi, nelle scelte effettuate, è stata proprio quella degli universitari, oberati da tasse che solamente a discrezione delle Università sono state posticipate o rimodulate. 

Nel Decreto Rilancio la quota dedicata all’Istruzione per l’aumento di assunzioni di ricercatori (5.600, più del quadruplo di quelli inseriti nel Milleproroghe) ha toccato la cifra di 1.400 milioni. Nonostante questo restiamo negli ultimi posti in Europa per investimenti nell’istruzione. È previsto inoltre che nel prossimo anno accademico saranno 9500 in meno i ragazzi che si iscriveranno all’Università. Ci vogliono piani di supporto, borse di studio e mobilità per aiutare ragazzi e famiglie che dovranno sobbarcarsi una formazione che, finora, genera poca o uguale occupazione e retribuzione rispetto a coloro che posseggono il diploma. Basti pensare che le ricercatrici che hanno isolato il Covid-19 erano precarie con lo stipendio minimo.

La visione non è incoraggiante. Ci vogliono proposte coraggiose attuate da un governo forte delle sue idee. Ne abbiamo in Italia?

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